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tuna, la salvano le solide giunture e i cuscinetti a molla del suo sedere.
Allora piange, si ricorda delle sue disgrazie e piange ancora; o si ritira mortificata nella sua cameretta, dove la bambola sta seduta sul dizionario polveroso, fra tesori di collane di princisbecco, e, sulle pareti, dalle cartoline illustrate ridono tutti i bellissimi paesaggi della nostra Italia. Che cosa faccia chiusa per ore ed ore nella sua cameretta non si sa; a volte ne vien fuori con un disegno già bene iniziato, ma altre con i capelli ondulati alla moda. Si capisce: ha dodici anni, e il suo viso ha i sùbiti rossori e poi il diafano trascolorarsi del cielo di febbraio.
È giusto, quindi, ch’ella rida d’impeto, con malizia animalesca, quando i grandi si lasciano scappare davanti a lei qualche allusione piccante: ma è un riso tutto fisico, che non intacca le pareti bianche della sua coscienza: coscienza, d’altronde, con le finestre già aperte sugli spazî infiniti del male e del bene, ma pronta a tenerle spalancate di preferenza verso di questo. E la filosofia più solida e antica, quella che appunto le proviene dai suoi antenati, pastori di montagna, già accompagna la visione di questo panorama. Quando, per miracolo, ella siede in cima alla sedia per rammendare a lunghi punti le sue calze, pronunzia sentenze e proverbi che le fanno onore: per esempio: «Chi lavora non implora», oppure: «Tutto nella vita