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bambino rimaneva fuori a spiare, forse a fiutare, dal buco della serratura, l’odore di morte che già esalava nella casa di lei.

Ella però s’era già come raddrizzata sopra l’abisso. E andò a cercare quella là.

Era una tortora, simile a un piccolo piccione bigio, che tutti i bambini del quartiere conoscevano perchè nelle belle giornate si affacciava fra le sbarre della terrazzina, e rispondeva con un lieve tubare ai loro gridi di richiamo.

Da anni era l’unica compagna della signorina Carlotta, che quando non aveva altro da fare se la teneva contro il petto, e qualche volta non usciva di casa per non lasciarla sola.

In quei giorni d’angosciosa inquietudine l’aveva un po’ trascurata, e la tortora pareva sentisse la tristezza di lei. Una volta la padrona la trovò nascosta sotto la tavola della cucina, accucciata come se covasse. Era una posizione insolita, per la piccola solitaria che non sapeva cosa fosse l’amore: e istinto di amore non era, perchè quando la donna la prese nella culla delle sue mani, la sentì fredda e, sotto le ali ripiegate rigide, più minuta del solito. Gli occhi, poi, erano socchiusi e smorti.

— Tu sei malata, anima mia — le disse, con pena più che materna: e tentò di rianimarla col suo alito, col calore del suo petto, con un panno che fece scaldare sul fuoco. Ma la tortora non riprendeva vita. Allora la donna credette