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Il suo risveglio fu appunto come quello di un narcotizzato: privo del senso della realtà. Dapprima gli parve di viaggiare ancora, sdraiato nella cuccetta di un transatlantico del quale non si sentiva che la velocità; poi d’improvviso ricordò: e l’odore della camera chiusa, del letto muffito, gli diede l’impressione di essere sepolto vivo. I fantasmi, adesso, ebbero buon gioco su di lui, tutti: i più cattivi ricordi, le cose nere, le angoscie più lontane, e il dolore, la vergogna, il pentimento del suo ritorno.

— Si può sapere che sei tornato a fare, grosso Paolone? Si può sapere, sì. Sei tornato perchè hai la schiena forte, ma il cuore debole; e sei tornato perchè non sei mai partito: la tua casa, il tuo passato, la compagnia di un tempo te li sei portati appresso, sulle spalle, come dentro un sacco, e hai lavorato con l’illusione che, ritornando qui e deponendo il sacco, tutto sarebbe ritornato a posto.

— È vero, è vero — egli disse col suo vocione di tamburo. — Già, anche la compagnia!

Al suono della sua voce gli parve che il silenzio si facesse più intenso intorno a lui e la solitudine più feroce.