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macchina di vita, alla pace primitiva del suo paese. Ecco, i bambini giocano ancora con le fave, come lui nella sua prima infanzia: le lunghe e grosse fave a coppia, panciute e cornute, sono i buoi aggiogati che vanno al pascolo o tirano una crocetta di canna che rappresenta l’aratro: con le fave si prepara il desinare, si fabbricano anelli e catene: e uno dei bambini accompagna il gioco degli altri col filo di musica che sgorga da un flauto di avena, di tanto in tanto interrompendo l’opera d’arte per l’esercizio bellico di una fionda di salice che coi suoi proiettili di sasso sbaraglia l’esercito dei gatti che dai dintorni accorrono all’osteria.

Allora Lisendra, con un recipiente in mano, si affaccia alla porta della cucina, e manda via dalla tettoia i bambini per riguardo dei clienti che arrivano.

I clienti che arrivano hanno, del resto, poche pretese: rozzi e bonari, forse anch’essi in origine prepotenti e istintivi, sono adesso ammansiti dal lungo lavoro e dalla vita dura. Sono carrettieri rossi e calvi, che abbandonano per un quarto d’ora, davanti all’osteria campestre, i loro lunghi veicoli turchini dal mantice dipinto e istoriato, ed i cavalli con le nappe rosse alle orecchie come pendenti di corallo; stanchi muratori che fabbricano le case nuove in mezzo ai sambuchi; e infine i casari, per lo più giovani, del colore incerto degli emigranti che per-