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pallide di sambuco; poi assottigliata in un viottolo fra siepi di biancospino e campi di fave piegate sotto il peso dei loro lunghi baccelli cornuti.

Ecco finalmente il lieve groppo, che dall’altra parte si sprofonda in un largo avvallamento, ecco la casetta rossa e la lunga tettoia dove Alessandra Porcheddu, la sua antica serva, da molti anni qui emigrata col marito ed altri compaesani, esercita una rustica trattoria frequentata da carrettieri di passaggio, dagli operai delle nuove costruzioni, e soprattutto dai casari dei dintorni. Anche il marito della donna ed i figli grandicelli lavorano nei caseifici sottostanti; mentre i marmocchi ultimi, scalzi, terrosi e selvatici, giocano fra le ginestre e i canneti sotto il ciglione.

Fu uno di questi bambini, con la testa grossa come quella di don Felice, ma bello rosso e con due occhi di stella, che primo si accorse del forestiero e salì a darne l’annunzio alla madre.

Ella si affacciò all’uscio fumoso della cucina, che comunicava con la tettoia, riparate dalla quale alcune tavole unte e vinose aspettavano gli avventori; e nel riconoscere l’antico padrone si mise a ridere: ma di un riso silenzioso che solo scopriva i grandi denti di madreperla e dorava il suo viso di beduina.

Anche l’uomo, nel rivederla, piccola, rigida e squadrata come un idolo di legno, con tutto