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il proprio dovere. Dio ci ha portato via il babbo, ma non ci ha lasciato orfani: perchè Dio è sempre il padre della gente per bene.

Questi discorsi non meravigliavano la madre, neppure a sentirli in bocca a quel palo di suo figlio vestito da granatiere: erano l’eco dei suoi insegnamenti, il fiore spuntato dalla sua lunga pazienza, dalla sua religione di madre.

Serata felice fu quella per loro due, accompagnati, nella quiete della piccola casa, dall’ombra luminosa del figlio lontano. La stanzetta da pranzo, che di giorno era grigia e triste per la luce bassa del cortile interno del palazzone popolare, rischiarata adesso dal globo lunare della lampada elettrica, sembrava un’altra. Arabeschi d’oro risaltavano sulla carta verdastra delle pareti: sull’ottomana dello stesso colore, che alla notte serviva da letto, mazzi di peonie e di tulipani inverosimili si offrivano, con la gioia sfacciata dei loro colori, a chi li guardava. Un po’ d’oro e fiorellini più miti sorridevano anche attraverso il cristallo della credenza, sull’orlo delle tazzine da caffè, sulla pancia scintillante della zuppiera, sul cappuccio del bricco per il latte: tutto pulito, in ordine, in solitudine.

Madre e figlio, intorno alla tavola ovale, parlavano senza sosta: di Gianni, del suo commercio di frutta secche, dei suoi progetti, dell’avvenire. La parola «denaro» sbocciava come il lieto motivo di tutto il loro discorso, ma senza risonanze