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e non si sdraiava mai. Ogni volta che andava a vederlo, il suo nuovo padrone lo trovava deperito, sempre più magro, tonto e triste: e in fondo desiderava che morisse, per potersene liberare.
Gli si ammalò, invece, e morì in pochi giorni il cavallo giovane, quello da tiro e da fatica. Fu per il vecchio servo una vera tragedia: poichè era già il tempo delle olive, e per campare, non ricevendo più dagli altri eredi del padrone morto sussidio alcuno, egli contava sulla rendita del frantoio.
Un giorno di autunno, che già cominciava a far freddo e a piovigginare, andò a riprendere Fortunato per riportarlo a casa. Lo trovò affacciato alla muriccia del prato, tutto nero e intirizzito sullo sfondo della caligine; e gli parve che lo aspettasse.
— Come va, compare?
Gli occhi del cavallo si animarono e rivolsero uno sguardo quasi umano al nuovo padrone: quando poi questi gli diede il solito colpo con la mano aperta, nitrì a lungo. E il vecchio si sentì echeggiare quel nitrito nelle vene, come un brivido misterioso provocato da un senso di rivelazione panica.
Da tanto tempo il cavallo non nitriva più.
L’uomo gli prese la testa fra le mani, come quella di un suo simile, poi lo fissò negli occhi.
— Tu indovini il mio pensiero, creatura di