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nevo la borsa. Mai lo avessi fatto. Il compare, che dapprima ascoltava benevolo, si fece nero in viso, come per una crudele offesa. Poi rise; un riso stridente che mi sega ancora l’anima. Dice: — Il mio cavallo? Se me ne dessero in cambio uno d’oro non lo cederei neppure a mio fratello. — E non ci fu verso di fargli mutare parere. Ma appunto per il rifiuto, il mio Alessio s’innamora del cavallo e lo vuole a tutti i costi. Io stesso mi sentivo punto, perchè il compare non cedeva la bestia per semplice orgoglio: se io gliela avessi chiesta in regalo me l’avrebbe data: l’accenno alla borsa, con la sicurezza che dà il denaro, lo aveva invece offeso e indignato. Così ne nacque una vera inimicizia. Una notte ignoti ladri tentarono di penetrare nella stalla dove il compare teneva prigioniero il puledro: egli incolpò mio figlio, che per lo sdegno minacciò di ucciderlo. Si passarono brutte giornate: io avevo paura di una grave disgrazia, e cominciai ad odiare con tale veemenza l’uomo al quale un tempo volevo un bene da fratello, che giorno e notte lo coprivo di maledizioni. Arrivato sono al punto di chiedere a Dio la sua morte; infatti, il giorno di Sant’Anna, sì, il 26 luglio del 1906, andai alla messa, e al momento dell’Elevazione domandai la grazia di essere liberato dal mio nemico. E nello stesso tempo imprecavo, poichè egli mi aveva condotto a quel punto. «Maledetto tu sii, — dicevo, — per il tuo orgoglio e le tue