Questa pagina è stata trascritta e formattata, ma deve essere riletta. |
— 110 — |
Poi se ne andò, facendo culla delle mani all’uccello ferito.
Lo portò nella sua camera, lo mise sul letto, e poichè l’infelice tentava di sgusciar via gli formò una specie di nido con l’asciugamano. Per un momento l’uccello parve assopirsi; ma appena Gabriele si allontanò per cercargli del cibo, svolazzò di nuovo, fino a precipitare giù dal lettuccio: il ragazzo lo trovò con l’ala sana tesa e tremante, gli occhi grandi pieni d’angoscia. Sul tappeto chiaro una macchia di sangue segnava come un piccolo garofano stroncato dallo stelo.
Allora cominciò una lunga pena per l’adolescente: una pena femminea, materna, mai provata. Girò per la casa, finchè non trovò una sporta, il cui fondo imbottì di ovatta: di là dentro l’uccello non poteva uscire nè farsi più male: e infatti vi si accovacciò, come usava sulle gramigne fresche dell’arenile nei giorni felici che non dovevano tornare mai più. E per quante cose buone il suo salvatore gli porgesse, non apriva il lungo becco nero nè muoveva la piccola testa segnata dall’astro del dolore.
Finchè la serva non si accorse del dramma e mise il cespuglio rossastro della sua testa sopra la sporta che Gabriele le aveva portato via di cucina.
— Benedetto da Dio! Ma questo è un uccello di mare, e non mangia che pesciolini freschi.