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tempestandolo di calci furibondi, da tutte le parti, fin dove la sua gamba lunga e snodata e il suo piede da calciatore potevano arrivare. E fu un torneare fantastico, perchè l’avversario reagiva, con agilità serpentina, valendosi anche del braccio libero, mentre Gabriele non cessava di stringere l’uccello al suo petto ansante. Finchè tutti assieme in mucchio non caddero sull’erba della radura, e il gemello battè la testa sul tronco abbattuto che li aveva fatti inciampare: allora mugghiò, come un toro ferito.

Gabriele fu il primo a sollevarsi: vide il sangue stillare dal sopracciglio destro dell’avversario, e si placò; anzi un istinto di paura lo spinse a guardarsi intorno: ma gli parve di essere in un luogo sconosciuto e quasi incantato. Non si vedeva anima viva nella distesa dorata della vigna che sconfinava con la serenità cilestrina dell’orizzonte: e solo laggiù, dietro la linea boschiva dei frutteti, il fumo che sbocciava dallo stelo di un comignolo ricordava che altri uomini, oltre quei due lì, nemici per la vita, esistevano nel mondo.

Il vinto si era sollevato sul tronco e annaspava l’aria come tentando di galleggiare; poi ricadde sul fianco: il sangue continuava a solcargli la guancia, ma erano poche gocce lente, come di sudore, e Gabriele si rassicurò. Disse, spietato:

— E non fiatare, sai, con nessuno. Altrimenti faccio mandar via tuo padre. Capito?