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I due gemelli, camusi e gialli come cinesi, vestiti con certe vecchie maglie rosse che li facevano apparire più selvaggi, questionavano per un uccellino che uno di essi teneva stretto nella mano già grande e ossuta.

Nell’accorgersi del padroncino stettero zitti, quasi odorando il vento infido, e quello che teneva l’uccello tentò di svignarsela. Ma il padrone lo raggiunse presto coi suoi lunghi e volanti passi di corridore.

— Gabriele... — mormorò il ragazzo.

— Anzitutto ti ho già avvertito di non chiamarmi col mio nome solo e di non darmi del tu, poi mi dici dove hai preso quell’uccello.

Anche la sua voce era la voce rauca e rombante degli adolescenti in crescenza: e spaurì ma irritò in pari tempo il gemello, che guardò coi suoi occhi verdi sfrontati il giovane e già autoritario padrone.

— Non l’ho preso io. L’ha preso ieri il babbo ch’è andato a caccia: è ancora ferito.

Questa notizia parve sbalordire Gabriele.

— Fa’ vedere.

L’altro aprì le dita, ma l’uccello, invece di passare nella mano di Gabriele, sgusciò giù e cadde a terra svolazzando. Era miseramente mutilato, con una grande raggiante ala d’argento e d’azzurro e l’altra sanguinante mozzata di tutte le sue penne e di un pezzo di carne alla sommità.

Quando si ricompose, richiudendo le ali, e la