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era la consegna di queste che la madre di Stefano voleva farle, cedendole il passo sulla porta della sua casa prima di uscirne lei per sempre.



Al ritorno a casa scrisse a Gioele pregandolo di non pensare più a lei. I giorni passarono. Ella sedeva rassegnata accanto alla nonna, aspettando: ormai che la madre di Stefano guarisse o no, la sua sorte non mutava: eppure trasaliva ad ogni picchiare alla porta, ed anche ogni volta che Mikedda rientrava di fuori e volgeva verso di lei i grandi occhi vividi nel piccolo viso preoccupato.

Sognava l’arrivo di Gioele, e qualche atto disperato di lui per salvarla e salvarsi. Di notte, quando la nonna non poteva più domandare di lei, s’affacciava alla finestra e s’abbandonava al suo dolore con una tristezza tenera, infantile. Le pareva di avere ancora quindici anni e di aspettare che Gioele passasse, col suo passo lento, col bel viso sollevato e gli occhi rivolti a lei come al solo punto visibile di tutto l’universo. E lei scuoteva la testa, per tentare di sciogliere le sue treccie e lasciarle cadere fino alla strada,