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S’alzò quindi, inquieta, e andò nell’altra stanza. Era già notte: una notte di luna, tiepida, lucida. Attraverso la porta aperta della cucina si vedeva il lastrico umido del cortile risplendere come vi fosse piovuto dell’argento: e nel silenzio si udiva risuonare ancora il martellare del fabbro: colpi caldi, vibranti, che si spegnevano nell’aria lunare come brage buttate nell’acqua.
Annarosa aveva ripreso a vagare inquieta di qua e di là nella stanza, di nuovo riafferrata da un senso d’attesa penosa. Sentiva anche lei che qualcuno veniva: chi? Stefano? Agostino? Mikedda? la vita o la morte?
Dopo qualche momento un altro rumore si confuse con quello del fabbro, s’avvicinò, si fece distinto: era il passo del cavallo di Agostino.
E Annarosa si slanciò nel cortile, spalancò il portone. Sì, è il cavallo di Agostino, con la faccia bianca di luna, che s’avanza rapido dal fondo solitario della strada: ma a cavalcioni sul suo dorso nudo s’erge un’esile figurina grigia, con le treccie sciolte, coi piedi scalzi: un’apparizione quale a volte si vede in qualche fantasmagoria di nuvole.
— Mikedda! Che c’è?
Deledda, L’incendio nell’oliveto. | 18* |