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casa li guardasse come un grande viso misterioso, fra le due ali nere delle tettoje, attraverso lo spazio solitario del cortile. Il cane si era accovacciato silenzioso ai suoi piedi, ed egli sentiva come il soffio e l’odore di tutto il suo passato, di tutta la sua razza, in quel lieve ansare del cane, nel ruminare delle bestie sotto le tettoje, nel profumo umido di strame e di erbe aromatiche che si mischiava all’odore di selvatico del padre.

Non era la prima volta che sedeva lì, alla sera, accanto a lui. Altre volte vi si era seduta anche la madre, e fra tutti e tre era stato un quieto discutere di cose famigliari, un parlare delle cose attorno, e delle cose passate e di quelle da venire, e delle terre, del bestiame, del grano, e di monete, di monete, di monete, fitte, lontane eppure incombenti come tutte quelle stelle sopra la casa.

Il padre disse, come riprendendo un discorso interrotto:

— Dunque, dimmi una cosa, Stefene; a che cosa voleva accennare quell’idiota di Juanniccu?

Stefano parve cercare di ricordarsi; e si volse senza paura, o fingendo a sè stesso di non averne; ma attraverso la doppia maschera delle tenebre e della sua fin-