Pagina:Deledda - L'argine, Milano, Treves, 1934.djvu/98


— 88 —


Paolone è tutto rigidamente orgoglioso per la visita del podestà, quasi fosse stata per lui; e mentre prima tendeva a parlare male del signor Antioco, adesso lo esalta e lo benedice.

Siamo seduti, io e lui, davanti al focolare che, per la sua fiamma perenne, mi dà l’idea d’una scaturigine di fuoco naturale. La notte si è fatta fredda, quasi gelida, ma di una lucentezza di cristallo: si sente, fuori, l’esile corrente bisbigliare, di nascosto, innamorata della luna, che la riempie di brividi e di pesci e serpenti di mercurio. La signora Maffei, dopo la parca cena fatta, al solito, al chiarore del fuoco, è già andata a letto; e se il vecchio rimane a farmi compagnia è, anzitutto, perché io lo tento con l’irresistibile fiasco di vino, e poi perché, così almeno egli mi confessa, da qualche tempo soffre d’insonnia.

— Me lo fa tutti gli anni, di questi tempi, quando il grano comincia a venir su: sì, è una specie di lieve febbre, che molti patiscono, io non so perché: forse è l’odore della terra. E poi si ricordano le brutte cose passate.

— Alt! – dico io. — Non ricominciamo con le lamentele. Bevete, e raccontatemi del prevosto don Achille. — Paolo beve, e piano piano