Pagina:Deledda - L'argine, Milano, Treves, 1934.djvu/86


— 76 —

me, la riaccompagnerò io, in paese, mentre mi recherò alla stazione. Spero.

Anche per me si aprì, per un attimo, il velo della speranza. Perchè no? La speranza di un po’ di amicizia, di fede, di confidenza, fra tanta gente che mi si mostra ostile, interessata, o, peggio ancora, indifferente. Sì, ecco che l’aiuto, per il quale istintivamente ero salito alla villetta del poggio degli ulivi, mi veniva incontro: almeno una promessa di questo aiuto. Oh, Noemi, avere un amico! L’amicizia, fra uomo e uomo, è il maggior dono di Dio: più che l’amore, più che il potere. Ed io non l’ho mai avuto, un amico: mai, pur sognandolo come la fanciulla sogna lo sposo. Pensavo: «Quest’uomo, intelligente e vivo, mi renderà forse agevole l’opera che devo compiere: l’opera morale, più che quella materiale. Ci vorrà tempo, ma siamo giovani entrambi e l’avvenire è nostro. Ed io, forse, potrò fare del bene a lui, come lui a me».

Sogni? Ad ogni modo, prima che me ne andassi, egli promise ancora di sollecitare l’ingegnere del Genio Civile per il disbrigo della mia pratica: e poi mi accompagnò cordialmente fino al cancello del suo spalto.

Te lo confesso, Noemi, me ne andai come un po’ ubriaco: di quell’ebbrezza che lascia un incontro d’amore o il vedere il principio concreto di una nostra opera d’arte. Il tempo, la strada,