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ielli, di vestiti che lasciavano vedere la pelle bianca delle dame: e risate discrete, e brindisi eleganti, e contatto lieve ma eccitante, fra uomini e donne di ogni età e colore. Musiche, e qualche volta canti ricercati, rievocazioni di voci antiche, di passioni romantiche e false, completavano l’atmosfera un po’ viziata ma sognante dell’ambiente. Una delle ultime sere, circa un anno fa, vi fu un pranzo, fra stranieri, quasi tutti nordici: pranzo elegantissimo, sebbene corretto, anzi un po’ rigido, come un pranzo diplomatico: ma ad ogni alzare di bicchiere, fin dal principio, una parola pronunziata a mezza voce, con un accennare d’occhi ridente eppure freddo, si scambiava fra gli invitati, dall’uno all’altro, da un lato all’altro, da un capo all’altro della mensa: con la parola si incontravano gli sguardi, ed era come un incrociarsi, uno svolazzare, un beccarsi di uccelli felici e graziosi, in un clima tiepido, in un giardino quasi misterioso.

Noi si sedeva ad una piccola tavola a parte, con tanti altri pensionati; ma ella non cessava un istante di seguire con gli occhi il movimento del banchetto degli stranieri, come se si trattasse di un gioco o di una rappresentazione: e le sue pupille riflettevano le luci, le figure, l’oscillare fantastico del quadro giocondo. D’un tratto si rivolse a me, rossa, eppure col viso annuvo-