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a quest’eremo, – dice, con una certa allegra schiettezza, sotto la quale, però, io sento subito un substrato di finzione e di beffa (e forse egli è allegro appunto perchè ha occasione di divertirsi alle mie spalle). Tanto più che io oggi non scendo affatto in quella topaia del Municipio. Devo inoltre... – ma si accomodi, qui, qui, – aggiunge, passando la mano sul velluto dell’angolo del sofà, come per assicurarsi che il posto era buono per me; – si accomodi, e mi dica se gradisce un aperitivo. Francesca, – ordinò avvicinandosi all’uscio vetrato ch’era rimasto socchiuso:

– Cinzano.

Io mi sentivo proprio mortificato. Mi pareva sempre più che l’uomo azzurro, in pantofole di pelle tigrata, mi pigliasse un po’ in giro, o che meglio, si movesse, dandosi tanto da fare, lui che finora m’era sembrato un apatico, un indifferente, per mascherarsi, per apparirmi diverso da quello che realmente era: un attore, insomma.

Finalmente però si ricompose: sedette nell’angolo opposto del sofà, dove io mi tenevo rigido e disilluso, e accavallò le fini gambe nervose, ricoperte di calze di seta grigia che sembravano anch’esse di pelle di rettile. Entrò la donna, con la bottiglia e due calici su un vassoio di metallo: tutto riluceva, in quella casa sospesa