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Faenza, con dentro piante grasse, oleandri e cactus, che il gelo ha però intaccato e annerito. Si respira un’atmosfera signorile; si ha un’impressione di quiete, di silenzio, da luogo quasi disabitato. E la donna che mi viene incontro, alta, vestita di nero e col grembiale bianco, parrebbe una cameriera di città, senza il fazzoletto ch’ella porta allo stesso modo della moglie di Paolone. Ha un’aria fiacca, assonnata ma al vedermi si anima tutta; i suoi occhi neri e la bocca fresca, benchè sdentata, hanno un sorriso furbo, quasi ironico. Dice, con voce sommessa:

– Il signorino si alza in questo momento ad ogni modo mi dica chi devo annunziare.

Nello stesso momento il signorino appare sulla loggia, in pigiama di flanella azzurra con risvolti di seta: i suoi folti capelli neri, pettinati all’indietro sull’alta fronte bianca, ancora bagnati, hanno un riflesso iridato. Nel vedermi aggrotta le sopracciglia; ma subito si rischiara in viso, e si piega sulla balaustrata come il bambino, giù, sull’acqua corrente. Grida, con una cordialità che mi sorprende:

– Si accomodi, si accomodi: vengo giù subito.

La donna mi fa entrare: la vetrata del portichetto illumina un grazioso ingresso, col pavimento a mosaico e vasi alti di Faenza, per por-