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sua calzatura: aveva una lunga camicia da notte, come in una sua fotografia da bambina, un nastro bianco intorno ai capelli. Tutto era in ordine, nella camera; tutto silenzioso. Provai la stessa impressione che si ha nei cimiteri, in qualche angolo verde e ombroso dove, sopra una lastra che pare di neve, un angelo di marmo vigila con un dito sulle labbra sottili. Silenzio: non disturbate i dormenti. Eppure tentai di rianimarla. Ella rimase fredda, rigida, bianca e scalza, simile in tutto all’angelo della morte.
Chiamai subito un medico, per telefono, senza neppure avvertire la cameriera. Venne il medico e constatò la morte per avvelenamento. In un attimo, non so come, come si spande un odore di incendio, la notizia si diffuse per il palazzo, per la strada, per la città. Rifiutai di aprire alle persone che suonavano alla porta; ma bisognò aprire agli agenti e al funzionario della giustizia: fui sospettato, fermato in casa, interrogato. Ore di mortale umiliazione. Per fortuna, sinistra fortuna, fu rinvenuto il suo testamento, scritto pochi momenti prima del suo sonno mortale. Dichiarava di uccidersi perchè tormentata dalla paura d’impazzire: lasciava a me la legittima del suo patrimonio: il resto per la costruzione di opere pubbliche nel suo paese natio; possibilmente, prima di ogni cosa, di un argine per frenare la fiumana che