voche del paese e vi si stabilivano. Eppure io avevo paura di loro, come del resto avevo paura di tutto, perché mi sentivo sola e quasi indifesa. Non avevo amiche, non parenti, non conoscevo nessuno. La scuola era di fronte alla nostra casa, e per arrivarci attraversavo di corsa la piazzetta, tenuta d’occhio dalla serva, che poi veniva a prendermi all’uscita e non mi lasciava parlare con nessuno. Anche la Maestra, che per quattro anni fu sempre la stessa, non s’interessò mai a fondo di me. Così passò la mia fanciullezza, scialba, innocente, di una innocenza quasi idiota. Mai un libro, mai un giornale che non fosse di commercio; e bambole di straccio, e giocattoli ridicoli. Passavo le giornate nel cortile; mi fabbricavo fornelli di pietruzze e di fango e vi cucinavo semi e granellini di riso; parlavo con le galline e il maiale, che erano i miei soli amici. Mai un fatto che spezzasse la monotonia grigia dei miei giorni sempre eguali; l’avvenimento più grande, pieno di ansia, di paura, di fatica, ma anche di gioia indicibile, era quando Giovanna, la serva, mi portava con sé nei boschi dove mio padre dirigeva il taglio delle piante, per cogliere ghiande per il nostro maiale. Le stavo sempre appresso perché avevo sempre paura degli uomini del luogo, e mi piegavo a cogliere le ghiande tra le felci, il muschio, il capelvenere; ma trovavo