Questa pagina è stata trascritta e formattata, ma deve essere riletta. |
— 277 — |
egli ha espresso il desiderio di vedermi, ed io sono andato da lui con un senso di religione, quasi di mistero: passando davanti alla chiesa ho ripensato ai pellegrini che si recavano in Terra Santa per visitare il sepolcro di Cristo. E una tomba è, sì, la villa Decobra: fin dall’ingresso se ne sente l’odore, nell’aroma dei cipressi, nel profumo umido del parco: la sabbia del viale scricchiola sotto i piedi come lamentandosi di essere smossa: gli stessi uccelli pare cantino in sordina. Non ti dirò dei ricordi che mi accompagnavano e mi soffocavano.
Aroldo Decobra, che qui, per terribile ironia degli indifferenti, chiamano «il giovane», giace in una grande sala terrena che sembra tutta verde per il verde cupo e fitto del parco sul quale dànno le finestre sempre socchiuse. Questa penombra, anzi questo crepuscolo quasi di grotta accresce la mia impressione funebre: ma è il malato stesso che non vuole la luce, perché gli fa male: ed egli è lungo, nel suo letto anch’esso coperto da una coltre verdastra, secco e giallo come una radice che aspetti, sotto la terra umida, di rinascere dopo il gelo dell’inverno. Solo gli occhi, neri e scavati, hanno un vago splendore, ma quasi di una luce esterna, lontana, la sola che penetra dall’aprirsi e chiudersi della porta a vetri, e che è davvero la luce di un orizzonte oltre il recinto opaco di questa dimora.