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più parlare. A che prò? Siamo già di nuovo lontani, sconosciuti l’uno all’altro, soli con noi stessi. È vero: a che prò continuare? Né io posso farle del bene, né lei può farne a me, con le nostre inutili confidenze. Eppure io insisto; e non so perché lo faccio, se per curiosità banale o per istinto di carità umana; così, come il povero divide il suo pane col più povero di lui, sull’orlo della loro strada di vagabondi; e, in fondo, sento che l’incontro delle nostre diverse miserie, la mia e quella di Agar, non è il solito romanzetto primaverile, il gioco dei sensi che si confonde con quello delle bestie in amore; e neppure il preludio ad un amore più serio ed elevato; ma quasi una lotta di gente che soffre profondamente e riversa l’una sull’altra la propria disperazione, tentando invano di liberarsene. Sì, così: i due poveri; i due poveri che si dividono il pane: poi ciascuno riprenderà la sua via, uno da una parte, l’altro dall’altra; ma sempre per la stessa strada di affanno e di stanchezza dell’umanità. Dissi:

— Agar, mi perdoni se anch’io le ho fatto del male. Non era questa la mia intenzione. Io non sapevo...

— Non è vero, — risponde lei, alzando la voce come si alza un martello. — Non mi prenda per una stupida. Lei sapeva tutto. Tutto le avevano detto, poiché nella casa del suo vec-