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getti sparsi sulla tavola; sul pavimento poi si vede che le galline fanno il comodo loro.

Il cortile è ingombro di tritumi, di mattoni rotti, di legna, di stracci tesi ad asciugare: i galletti ardenti raspano con furia la terra; solo le oche, quattro, come quattro grandi dame in convegno fra loro, conservano una maestà opulenta: al nostro passaggio stridono, in segno di saluto, dice don Achille, che fa segno di benedirle e ne accarezza una sulla piccola testa severa.

— Le oche, — affermava, — sono calunniate: sono bestie, belle e intelligentissime, che conoscono il tempo, la gente, gli umori della gente. Oggi, vede, sono allegre, sebbene in compostezza, perché capiscono che anche il loro padrone è contento: ed hanno, inoltre, indovinato subito che lei è un amico di casa.

Sarà! Certo, il loro grido quasi umano, che si ripete a intervalli precisi, e richiama l’eco di altre voci di oche lontane, attraversa lo spazio con alcunché di guerresco: mi sembrano sentinelle, che si rispondono da un punto all’altro con una cifra d’ordine che il nemico non conosce. Sento quasi che questo nemico sono io: io che esploro cautamente, con tradimento per il mio illuso ospite, il passaggio lungo il muro e la siepe del cortile, via via fino al vialetto del pergolato; e vedo da per tutto l’ombra di Agar, ripensando ai suoi convegni notturni. Non sono