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tranne una piccola tavola centrale e un divano con una coltre di seta che pareva intessuta di erba fresca, i mobili erano di giunco, lievi e lucidi come d’avorio, con piccoli disegni neri. Stampe e vasi giapponesi, con l’area vaghezza dei loro colori, i rami in germoglio, gli uccelli graziosi, davano all’ambiente una gentilezza sempre primaverile. Sembrava anch’esso il salottino di una fanciulla di altri tempi, e di altri tempi il cestino da lavoro, coi suoi gomitoli di filo e di seta che parevano frutti, il ditale d’argento, il cuscinetto di velluto verde per le spille messe in fila come soldati: tutto in ordine, come in ordine simmetrico erano i libri, i giornali, le carte, sulla tavola che serviva anche da scrittoio.

E qui ella s’indugiò un momento, affacciandosi anche alla finestra, che con le altre dell’appartamento dava su una larga strada nuova, già lucente di insegne e di vetrine; ma aveva, pur di fronte, l’angolo di un giardino, con un fastoso cedro del Libano sempre verde che riempiva il breve orizzonte e nascondeva la sagoma di un villino signorile.

Il cielo alto, di un turchino fatto più vivo da una coda pavonesca di nuvolette bianche, richiamò lo sguardo della donna: un pensiero le fece brillare gli occhi; ma subito li riabbassò, chiuse i vetri e uscì nel corridoio. Corridoio che faceva parte del museo, dividendo in lungo il