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fatto male, e rivolge uno sguardo obliquo, cattivo e sdegnoso, al frate prepotente.
Nella camera di don Achille osservo un certo disordine; è, adesso, la camera di un vero malato, con l’odore caratteristico di caldo marciume, che emana il corpo umano arso dalla febbre. Il povero parroco è rosso in viso, con un fazzoletto bagnato sulla fronte: ha l’aria spaurita di un colpevole.
Padre Leone gli fa sorbire la medicina, poi ordina ad Agar, rimasta lì come sospesa in una nube:
— Va a portare il caffè. Cammina.
Ella cammina, ma come un uccello, con un trepido passo saltellante: una treccia le si è sciolta e le serpeggia sulle spalle, attirando i miei sguardi come il passaggio di una stella filante.
— Dunque, don Achille — dico, scherzando, — abbiamo fatto i capricci, ieri? E così oggi la scontiamo? E se non la smette di fare di testa sua, le mettiamo la camicia di forza.
Egli sorride, beato di sentire la mia voce, mentre padre Leone si diverte a ripetere più volte:
— Camicia di forza, camicia di forza...
Poi, fra me e lui, si comincia a parlare delle cose del paese, del nuovo podestà, del maestro che deve sposarsi con la maestra, e infine della