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salutano e sorridono, quasi per farci vedere che almeno i loro denti sono bianchi; e padre Leone li benedice, loro coi loro asinelli, i cani, i sacchi di carbone; e in questo ha davvero qualche cosa di francescano schietto, che mi riconcilia con lui.

Quando si arriva davanti al convento io sono già un altro, disposto a tutto, persino a voler bene alle suore: e d’altronde il luogo desta davvero un senso di pietà. È triste anche sotto la luce del sole: a parte la facciata tinta alla meglio, con un portico lastricato di pietre di fiume, il resto è in perfetta decadenza: i muri scrostati, il lembo del tetto privo di embrici, che dà l’idea di una bocca sdentata, i vetri rotti delle finestre, mi dànno l’impressione che l’edificio, così sospeso sulle due correnti fragorose, sia un mulino abbandonato. Un noce secolare, a fianco del cortile, gli dà però un’aria pittoresca, di vecchia stampa romantica. Entriamo per una porticina laterale, in un lungo corridoio illuminato solo dalla luce fredda che scende dalla finestra della scala: ci riceve un’alta suora pallida, con l’abito stinto, con gli occhi azzurri stinti, che però si animano di una luce ridente per la presenza del miracoloso forestiere: poiché tutto il convento sa già quello che si può aspettare da lui.

Le consegno il mazzolino, del quale mi rimane l’odore aspro sulle dita, ed ella, più silenziosa di un’ombra, ci precede. Che tristezza,