Pagina:Deledda - L'argine, Milano, Treves, 1934.djvu/146


— 136 —

padre pretende che lo porti io, sebbene ciò mi sembri ridicolo; tuttavia accosto i fiori al viso, e nel loro bottone dorato mi pare ci sia qualche cosa degli occhi di Agar, che mi sorride, mi stuzzica, mi distrae. E veramente ho bisogno di un po’ di distrazione, durante questo viaggio strano del quale non so ancora spiegarmi bene lo scopo solo mi sembra che, guidato come un cane al guinzaglio dal mio autoritario compagno, io compia uno di quei pellegrinaggi che i fanatici s’impongono, per voto e per espiazione, verso un santuario miracoloso.

Chi sa che un po’ di salvezza non mi aspetti? La mattina è tiepida, ma non serena: un cielo lattiginoso, la fiumana bigia, che si diverte a scavalcare il ponticello di legno come un ragazzo che salta con la corda: il cimitero, dopo la parrocchia, tutto infreddolito e lagrimoso di guazza, con le lapidi e le tombe, sulla china erbosa, che mi dànno l’idea di panni tesi ad asciugare. Una tristezza pietosa torna a stringermi il cuore come i bambini impauriti mi fermo davanti al cancello, e penso che ella deve aver freddo; poi, mentre padre Leone fa segni ed inchini che sembrano scongiuri, vedo, sugli scalini della tomba Decobra, entro una piccola urna di bronzo, un mazzo di fiori simile a quello che tengo fra le mani. Chi l’ha deposto? La famiglia? Ma la famiglia ha rose e garofani. Forse Agar?