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sitarlo: ella rispondeva, sì, sì, tanto più che era suo dovere di salutare le suore le quali, si può dire, l’avevano allevata; ma poi non se ne fece niente. Nutriva, lo intesi dopo, una specie di ripugnanza, quasi di terrore, per il luogo ove tanto melanconica e chiusa era stata la sua fanciullezza: parlava con dispetto delle suore, ma rabbrividendo ricordava il freddo dei lunghissimi inverni, la solitudine del suo spirito privo dell’affetto materno. Perché l’avessero cacciata lassù lo seppi solo dal racconto di Antioco: avrebbero potuto almeno metterla in un grande collegio; ma la madre egoista, il padre abulico e già malato, l’ava tremebonda, la volevano almeno sott’occhio, e credevano di sopperire a quanto le mancava col mandarle in convento la maestra di piano e quella di disegno, e compensare a parte padre Leone perché le insegnasse anche il latino: due volte la settimana, poi, e durante vacanze estive la portavano a casa. E una volta uscita dalla sua prigione, ella non desiderò rimetterci piede: del resto per poco tempo; poiché fu durante l’estate in cui ella uscì dal convento che ci si conobbe.

Fu certo per reazione, quasi per vendetta contro quella sua ingrata adolescenza che ella si gettò, appena si fu in città, coi larghi mezzi assegnati dalla sua famiglia, alla vita mondana. Eppure, nei momenti di abbandono, più che per