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di disagio e dal bisogno di fare ritorno alla mia tana, mi alzo e guardo anch’io sullo spiazzo. C’è l’automobile, coi fanali accesi: la loro luce si sbatte contro il parapetto della balaustrata, e uno dei vasi, col cactus spinoso, sembra, in quel chiarore irreale, una coppa mostruosa di fattucchiere: così, al paese di mia nonna, le streghe, di notte, deponevano davanti alle case che volevano colpire di sventura, un’anfora piena di rovi e di spille malefiche.
— Guida lei? — domandai, senza nascondere il desiderio di metter fine all’incanto ambiguo di quella serata.
— Sì; ma la macchina non è mia: il padrone mi aspetta alla stazione, e se lei vuole accompagnarmi, egli poi la ricondurrà a casa.
Io non vorrei accompagnarlo, ma come si fa? La donna fantasma è ricomparsa dietro la vetrata, con la sua bocca vuota e chiusa, gli occhi divenuti violetti come fiori appassiti di genziana. Ella deve aver pianto: e non attribuisco se non ad una sua devozione materna questo dolore per la partenza del giovane padrone.
Oggi ho finalmente conosciuto la signorina Agar, e nel modo più impensato. È venuta lei in persona, da me, per trasmettermi un’amba-