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con cuscini di vecchio broccato; e argenterie sobrie, ossidate dal tempo: sotto un antico lampadario di legno scolpito, una piacevole mensa modernissima, è invece apparecchiata con un servizio di lino avorio a ricami e trafori: le stoviglie tutte bianche, di una fragile trasparenza d’alabastro; i bicchieri e le anfore colore di rosa. E in mezzo, in un alto vasetto, un solo fiore: una rosa fresca e olezzate, che domina davvero, come una regina, tutte le belle cose attorno. Non c’è fuoco, ma attraverso la vetrata di comunicazione si vede il camino acceso del salotto e se ne sente il calore.

Antipasti squisiti sono già pronti sulla mensa: aragosta, acciughe, olive, carciofini, ventresca di tonno; egli mi serve, con la mano fina al cui dito brilla il prezioso anello.

— Mi sembra di essere ospite di Gabriele d’Annunzio, — dico io, con sincera ammirazione: ma in fondo mi sento ipocrita e diffidente.

E si parla naturalmente del Poeta; argomento elegante e cordiale, per un principio di pranzo come quello. Non importa che a servire la prima portata entri la buona governante sdentata, la quale ha fatto al padrone la solita concessione di levarsi il fazzoletto, il quale del resto, le dà un’aria madonnesca. Ella non apre mai la bocca, perché questo è l’ordine, al quale si sottomette