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sorte, come una mendicante. Ombre sinistre mi velarono la bella giornata, e solo verso sera, giunta l’ora di recarmi alla gaia villa di Antioco, un po’ di colore mi tornò nell’anima.
Eccomi di nuovo sul pittoresco sentiero ancora tiepido di sole, su uno sfondo di cielo carnicino, appaiono spruzzati gli olivi del poggio: la villetta, però, come già al mattino la facciata della chiesa, mi fa un diverso effetto: poiché ha preso una tinta quasi di ocra, e le persiane, troppo azzurre, vi stonano: anche lo spalto, coi suoi vasi esagerati in proporzione alla piccola balaustrata si affaccia con una certa timidezza sulla valle piena di voci e di rumori. Sono i contadini che tornando a casa aizzano le loro bestie; e bambini errabondi che gridano e fischiano; infine la cantilena dell’acqua che però viene di lontano, dal crocicchio sotto al convento e pare l’eco dei vespri cantati lassù dalle suore appassionate.
Insomma, la casa di Antioco mi fa l’impressione di un luogo in apparenza lieto, triste in fondo, più triste della vecchia dimora di don Achille: o è il riflesso della mia interna irrequietudine a tingere di fosco pallore le cose a me davanti.
Infatti, arrivato allo spiazzo, mi domando con improvvisa disperazione che cosa sono venuto a cercare quassù: sento che Antioco non