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Sempre tenendomi per il braccio, egli mi fa rasentare i muri, me li fa anzi toccare; poi mi tira indietro, mi fa osservare ogni pietra, ogni fessura, e, bruscamente, mi conduce davanti alla facciata.

Adesso la facciata è in ombra, e non ha più il vivo sorriso della sera avanti; ma un so che di pallore, quasi di stanchezza, come un viso dopo una notte insonne; tuttavia è sempre mite, materna, benedicente.

La porta è chiusa, e don Achille, che io credevo mi invitasse ad entrare nella sua casa, mi lascia lì, col naso per aria, mentre va a deporre il suo carico e ad aprirmi la chiesa dall’interno.

Confesso che più di questa, la bicocca parrocchiale attirava la mia curiosa attenzione: sorge ai piedi del poggio, anche questo incoronato di olivi, di arbusti, di roveti; sembra fragile e cadente, ma non lo è; i muri solidissimi, sebbene le piccole finestre, senza persiane, alcune senza vetri, destino in chi guarda un senso di desolazione e di rovina.

Ad occidente, fra il muro della casa, del seguente cortile e dell’orto parrocchiale adagiato a scaglioni sul poggio, c’è un sentiero di là del quale s’inerpica il fiorito giardino dei morti, il piccolo camposanto ove ella dorme: ma oggi non voglio avere pensieri tragici, e il cancelletto di legno, del cortile del prevosto, mi parla,