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porgendogli una mano, e con l’altra tenendo alta la lucerna oleosa che mandava una gran fiamma; — vieni, bello, vieni, zia ti darà una cosa buona.

Egli guardò Paska.

— Va pure, — disse la ragazza, rassicurata dalla presenza della donna: ed egli andò, volgendosi indietro per chiamare il cagnolino. La camera ove zia Bisaccia lo condusse gli parve oltre ogni dire misteriosa: un baldacchino quadrato, di stoffa gialla, copriva il letto di legno; sulle pareti, in mezzo a quadretti e immagini pendevano cestini e canestri di asfodelo; grandi arche sarde scolpite nereggiavano lugubremente lungo i muri umidi. Dal soffitto pendevano formaggelli gialli, grappoli d’uva di pere e di mele cotogne.

Ma la diffidenza si mutò in gradevole sorpresa quando zia Bisaccia sollevò il coperchio di una di quelle arche, sotto cui il cagnolino era scomparso. Egli vide grandi corone di fichi secchi, attorte come serpenti inzuccherati, e uva passa lucente, e una pentola colma d’una sostanza dura, gialliccia, che gli era ignota. Allungò la testina, si fece coraggio.

— Cos’è questo?