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22 | il sigillo d'amore |
liato. Sono un ragazzo di buona famiglia: ho anche studiato; ma adesso mi trovo senza occupazione. Vado in cerca di lavoro e non trovo: spaccherei anche le legna, farei anche lo sguattero, eppure non trovo. La sciagura mi accompagna. Tutti mi guardano, vedono che non sono del popolo e lavoro non me ne danno. Anche lei crede che il mio vestito sia di persona civile: lo guardi bene; è tutto logoro, rammendato da me: guardi bene, non ho camicia, ma la pettina col collo rovesciato ha pretese d’eleganza. Il guaio è che non ho più la mamma e il babbo non l’ho conosciuto. Ho un fratello giudice, con la moglie malata e molti figli, e non può soccorrermi, nè io lo pretendo. Ma perdoni, signorina, io l’annoio: perdoni, sono un debole. Da due giorni non riesco a procurarmi da mangiare.
La signorina ascolta, a testa bassa anche lei, anche lei umiliata nella sua più viva umanità: crede ad ogni mia parola, ma a poco a poco, pur senza ch'ella parli o muti viso, sento che il suo primo turbamento svanisce: già un senso istintivo di diffidenza rende opaca la sua pietà. Tuttavia lascia ancora che l’accompagni e cammina tranquilla accanto a me lungo la spiaggia: e il suo silenzio pensieroso di me, e sopra tutto la sua fiducia volontaria mi umiliano più che la crudeltà delle donne di Rimini.