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Anch’io l’amavo sempre, la mia mamma, che era giovine ancora: a giorni sembrava più giovine di mia moglie. Dopo che viveva sola e non faticava più per me, rifioriva di una bellezza dolce, melanconica, d’una bellezza di autunno, che aveva vergogna a mostrarsi. I suoi capelli rassomigliavano ai tuoi, Sarina, dorati come da un riflesso esterno; i denti erano intatti, la bocca e gli occhi puri, ancora nuovi. E del resto, di che aveva sofferto, lei, per invecchiare? La sua vita era ferma; il male e il vero dolore non l’avevano intaccata: poichè anche lei non era stata innamorata di mio padre e la morte di lui l’aveva forse lasciata indifferente. Era vissuta solo per me, e credo che un calcolo istintivo, un sogno che forse ella coltivava fin da prima che io nascessi, l’avesse condotta a domandare aiuto al parente ricco. Ella aveva coltivato questo sogno come aveva coltivato la mia infanzia, la mia giovinezza; eccolo adesso divenuto realtà: che volevo di più? Eppure lei capiva che io soffrivo, e non riusciva a spiegarsene il perchè complicato, o meglio non voleva spiegarselo per non turbare la sua coscienza.

— È il troppo benestare che ti fa così, — mi dice un giorno che la tormento con le mie lamentele: — quando eravamo poveri