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dovuto far di me un operaio com’era mio padre e tenermi al mio posto invece di buttarmi in una vita che non era la mia e far di me uno spostato, uno che ricerca sempre il suo centro di gravità e non lo trova più se non abbandonandosi sulla terra morto. E arrivavo a questo, Sara, arrivavo a invidiare mia madre ch’era rimasta lassù nel nostro piccolo nido, dove io piombavo ogni tanto con una mania di distruzione, come fanno certi uccellacci appena usciti di minorità. Poi tornavo in casa di mia moglie più arrabbiato di prima: arrabbiato per aver fatto soffrire mia madre, e per la mia impotenza a rompere tutto e tornare alla vita di prima. Il guaio è che non vedevo scampo neppure in questo: anche ad aver la forza di farlo, sentivo che non avrei ritrovato che maggiore inquietudine.

Tutto mi saziava e nello stesso tempo mi irritava, della mia vita presente; e questa mia vita mi sembrava ancora più vuota di quella che conduceva mia moglie, con le sue sarte, le sue modiste, le sue amiche, le sue opere di beneficenza ridicole e grottesche. Invidiavo mia madre, sì, che non aveva cambiato vita, che mi guardava sempre allo stesso modo come quando ero bambino e dormivo ancora con lei tutti e due puri come la rosa col boccio.