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su una sedia a sdraio, triste e solo, vidi Gabriele. Anche lui mi vide, e non si mosse, non mi salutò; pareva indifferente a tutto, anche a me, anche a sé stesso. Invano il sole, che attraversava la loggia con un fascio di luce, lo ricopriva pietoso: neppure il sole esisteva più per lui.
Esaltata da un impeto di pietà più luminoso di quello del sole, entrai nello spiazzo, bussai due volte alla porta, che era socchiusa e si aprì da sé per lasciarmi entrare. Entrai, bussai anche alla vetrata dell’ingresso pulito e ornato di vasi con pianticelle verdi. Nessuno apparve. Mi volsi a guardare i leoni, quasi per chieder loro il permesso di proseguire; poi arditamente salii la scaletta di finto marmo e bussai di nuovo alla vetrata del primo piano.
Come un fantasma, o meglio come un morto che cammina, nel suo pigiama di seta bianca, che gli era largo da tutte le parti, mi venne ad aprire Gabriele. La cartapecora attaccata alle ossa del suo viso si era lievemente venata di viola; ma gli