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to impetuoso simile a quello destato dalla corsa del treno, tutti gli occhi sono fissati sulla giovane coppia che tira giù le sue valige e, in mancanza di facchini, si dispone a trasportarsele di persona.

Mio marito saluta tutti: pare quasi gli dispiaccia di lasciare l’allegra compagnia per seguire la piccola sposa corrucciata sul serio. E il treno malaugurato finalmente si muove, se ne va verso l’orizzonte di smalto turchino: ma per ultimo scherno le reclute intonano una specie di inno nuziale, con le solite allusioni; un coro magari benevolo, e quasi anzi nostalgico — poiché tutto quello che si lascia è buono, anche per l’uomo che concepisce la poesia solo in modo animalesco — , ma che colpisce le mie spalle come un vento gelato.

In realtà questo vento soffia davvero, da nord-ovest, e, usciti noi dal riparo della stazione, ci spinge con dispettosa violenza. Ho ancora l’impressione che fossero gli spiriti della solitudine intorno ad accoglierci ostili, e che, senza il contrappeso