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stessa: ma i sensi, appunto per questa volontaria costrizione, erano vivissimi tutti, e le cose esterne, belle e brutte, mi afferravano con violenza di piacere o di disgusto.

Sopratutto gli occhi nascondevo, sotto le palpebre larghe e le ciglia lunghe: per celare il bisogno intenso di vita e l’ardore clic componevano il fondo del mio essere: ed anche, forse, per fuggire alla luce violenta dei miei stessi sogni, come gli occhi degli uccelli dal forte e lungo volo, che sono forniti di doppie palpebre per non essere, nell’impeto dei loro viaggi, accecati dal vento e dal sole.

Ma quello che io volevo nascondere mi apparteneva esclusivamente: quindi, negli scrupolosi esami di coscienza prima di andare a confessarmi, non mi consideravo ipocrita o, meno ancora, ambiziosa: tutt’altro: sapevo anzi che era un tesoro ereditario, quello che custodivo in me, cioè la ricchezza meravigliosa delle stirpi vergini, l’elevarsi dello spirito fra gli ardori della carne, come la luce dalla fiamma: