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vano, senza più badare a me: finirono col mettersi a cantare tutti assieme il coro di una canzonetta soldatesca: ed anzi fu lui, il mio compagno, che la intonò.



Sembra niente; eppure, a tanti anni di distanza, non posso ricordare quell’ora senza un senso di sgomento.

Mi parve di essere sola al mondo e, peggio che sola, schiava di una sorte equivoca, trascinata, come una schiava autentica, da un’orda di soldati, dopo una razzia guerresca.

Il temperamento ce l’avevo: nata in un paese dove la donna era considerata ancora con criteri orientali, e quindi segregata in casa con l’unica missione di lavorare e procreare, avevo tutti i segni della razza: piccola, scura, diffidente e sognante, come una beduina che pur dal limite della sua tenda intravede ai con-