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56 | grazia deledda |
alla quale si scorgeva una porta spalancata e l’interno giallognolo d’un’osteria deserta. Un vecchio prete, dal viso grasso e pallido reclinato, saliva la strada respirando forte e tirandosi su la sottana. Giunto davanti al portone, si fermò e salutò:
— Buona sera: il direttore è lassù?
— Sissignore, rispose il piccolo soldato bruno, portandosi la mano alla fronte.
— C’è un condannato molto malato, è vero? Come va? Se stamattina stavano tutti bene?
— Sissignore. Una paralisi.
— Buona sera, disse allora il vecchio prete, riprendendo la salita frettoloso, e sollevandosi ancor più la sottana sulle calze turchine scolorite.
Serafino e il compagno, che era uno studente musicomane, si misero a discutere, come usavano spesso. Serafino mise questa questione: perchè i condannati a lunghe pene e i malati incurabili non capiscono che dovrebbero suicidarsi.
Il musicomane rispose che tanto gli uni come gli altri sperano di finir la pena o di guarire.
— Che vuoi, la vita è bella! - concluse, con gli occhioni neri scintillanti di gioia. - Basta vivere per vincere. E vedi, più si è malati, più si è condannati ad una pena grave, più si ama la vita.
— Parole! La vita, senza la salute, senza la libertà, senza la ricchezza, è una Vittoria con le ali spezzate, - disse poeticamente Serafino.
— Io godo poca salute, ribattè l’altro, sono spiantato, sono ora costretto al servizio militare; eppure, sono contento. Peggio per chi non lo è.