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104 | grazia deledda |
vestite come madonne bizantine, inginocchiate per terra, cantavano con voce appassionata i gosos di San Giovanni. Ciascuna di loro teneva in mano un mazzolino di verbasco, il cui odore si confondeva col profumo dell’incenso. Anche Oja attraversò lo spiazzo, ad occhi bassi, con un mazzolino di verbasco in una mano e la chiave di casa nell’altra. Juanne la salutò: ella non rispose neppure al saluto, ed entrò in chiesa. Allora egli si alzò, s’allontanò seguito da uno sguardo ironico dei vecchioni, e andò a prendere la corda. Pochi momenti dopo si trovava nel vicolo deserto e gettava il laccio al melagrano. Gli pareva di prendere al laccio la fortuna e l’amore: il cuore gli batteva forte: egli aveva paura che ziu Sotgiu tornasse e lo sorprendesse, o che Oja lo ricevesse male o avesse già un amante, ma non esitò ad arrampicarsi, salire sul muro e di là saltare nel cortile. La porta della cucina era chiusa. Un grosso cane selvaggio, incatenato sotto la tettoia, cominciò ad abbaiare in modo spaventoso. Juanne non aveva preveduto questo. Come fare? Egli si ricordò che sapeva i verbos, parole magiche per far tacere i cani. Provò a recitarli, ma il cane raddoppiava i suoi urli selvaggi. Allora egli si levò le scarpe e si buttò per terra, dietro una catasta di legna, fingendosi morto. A poco a poco il cane parve calmarsi; abbaiava solo di tanto in tanto.
Juanne pensava ad Oja, sempre più commosso e sempre più deciso di tentare tutti i mezzi per averla.