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Si sollevò, si snodò con movimenti felini, balzò sui margini della strada campestre, fra i poggi e la valle, e fermandosi su un dirupo abbaiò.

L’eco ripeteva l’avviso; veramente pochi altri segni di allarme rispondevano dagli uliveti della valle e dalle macchie dei poggi. E nessun altro cacciatore disturbava il luogo. La stagione non era adatta: faceva troppo caldo; si vedevano i campi già verdognoli di grano precoce, e i mandorli fioriti; soffi di scirocco venivano dalle lontananze marine, e il cacciatore, preso a salire l’erto poggio, cominciò a sudare miserevolmente: anzi, d’un tratto si abbattè su un masso, e sputò sui cespugli come faceva sul fuoco di casa sua. La cagna parve guardarlo disorientata e avvilita: ed egli, quasi per farle dispetto, trasse e accese la pipa. Questo era il colmo: Dama abbassò le orecchie e cercò qualche cosa da poter sbattere col muso, come quando la servetta le offriva il fondo del caffelatte. Sembrava, sì, che il padrone si beffasse di lei, che l’avesse portata a spasso solo per farle prendere aria come usava donna Palmira col suo cagnolino coevo di Matusalemme. Il cacciatore fumava, sputava, coi grossi piedi affondati in un cespuglio d’euforbia: pareva lui un volpone preso dalla trappola.

Ma ecco d’improvviso si scuote, si drizza sull’alta persona massiccia, e un’ombra vermiglia gli passa sul viso barbuto: ha vergogna di essersi lasciato sorprendere seduto frollo su una pietra, come una donnicciuola venuta a far legna nel bosco: balza su, si tira sul ventre la casacca di velluto rossiccio, solleva il fucile sulla spalla e fischia al cane, con un sibilo di uccello


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