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cessità di difendersi. Per non sembrare del tutto inumana, disse:

— Torni quando c’è lui. C’è, sa, in cima al paese, un’osteria con alloggio.

E spinge, spinge la vetrata, perchè il vento pare voglia aiutare l’uomo a penetrare nella casa. Ma non lo aiuta a salire l’erta strada che come una scalinata pietrosa s’inerpica su per il paesetto e pare vada a perdersi sul cocuzzolo del monte già tutto nero sotto un cielo glaciale. E come da un ghiacciaio il vento vien giù con una ferocia di tormenta: è un piombare selvaggio, non di una, ma di stormi di aquile, con fischi, sibili, beccate che penetrano fino al petto del viandante e lo costringono a chiudere gli occhi, a difendere la sua valigia che tende a seguire la rapina del vento; a ricordare che nella città donde veniva c’era almeno, nei giorni di forte bufera, una corda legata da un punto all’altro dei grandi viali perchè i pedoni potessero afferrarsi e procedere senza cadere.

Qui, nel suo paesetto, del quale conosceva ogni pietra, ogni porta, si sentiva più malfermo e strapazzato che nella metropoli sconosciuta. Tutto era chiuso e scuro, e in cima all’erta non appariva neppure il lume dell’osteria. Ma a metà strada egli riconobbe una porticina, riparata dall’arco di una scaletta esterna; vi abitava un tempo un suo cugino, calzolaio, molto povero: e gli venne in mente di bussare, pensando che spesso il povero è più ospitale del ricco. Anche lì, tuttavia, esitò. Dalle fessure della porta uscivano fili di luce e voci e strida di bambini. Non sono graziose nè beneducate, le creature della


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