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Così predicava il padre; e il figlio ci aveva creduto, finchè non si era convinto che l’uomo con gli occhi bene aperti alla realtà cerca il tesoro entro sè stesso, nel suo genio e nel suo lavoro, e spesso, non trovandolo neppure là, nelle casse del prossimo.

— Io non sono un genio, e ho sempre lavorato poco, — egli diceva a sè stesso, quella sera di autunno, seduto davanti al camino già ultimato ma ancora fresco di calce e col ripiano di cemento improntato dalla paletta dell’operaio, — quindi essendo anche proclive all’onestà, forse più che altro per pigrizia, sono rimasto povero, senza neppure l’eredità paterna non accettata: cioè quella delle speranze e delle illusioni dell’uomo primitivo. Ma non importa: purchè riesca a vedere il miracolo della fiamma, entro questo imbocco di galleria che può condurre a luoghi piacevoli. Sì, mi ricordo...

Sì, ricordava tante cose, adesso: l’imbocco appunto di una specie di galleria naturale, sui monti sopra il suo paese, che dopo una paziente esplorazione conduceva i ragazzi a un fantastico belvedere di rocce dal quale si vedeva un paesaggio bellissimo, esteso fino al mare. Anche in quelle grotte esistevano tesori, ma custoditi da spiriti maliziosi che non bisognava disturbare: e i ragazzi, che possedevano anch’essi ben altre ricchezze, se ne guardavano bene.

Di ricordo in ricordo, di fantasia in fantasia, il professore si lasciava scivolare a un vago sopore, a quel lieve incantesimo che rievoca quasi tangibilmente le cose lontane e risuscita i giorni morti.


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