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tivava il giardino: si intendeva di tutto, era bravo e pasticcione in tutto, e melenso oltre ogni dire: sonnecchiava sempre, svegliandosi solo quando si trattava di fare i conti. Anche adesso guardava qua e là con gli occhi socchiusi, con la bocca aperta e un po’ storta; sebbene facesse già freddo aveva ancora la paglietta, tirata indietro sul capo: pareva uno di quei santi campestri molto alla buona: un Sant’Antonio del fuoco.

— Ecco, — dice il professore, che si confida con Celestino come in trenta anni di insegnamento e di scritture non si è mai confidato coi suoi allievi e i suoi lettori, — mi pare vada bene quest’angolo della stanza da pranzo: è il luogo che preferisco: dalla vetrata si può scendere in giardino e prendere la legna nel sotto scala della gradinata: è più spiccio. E sbrigati; perché oramai sono tanti anni che si parla di questo camino; e adesso ci ho i dolori reumatici, e voglio infischiarmi del termosifone, che fa venire il mal di testa. Anzi non voglio più neppure accenderlo; tanto non voglio più ricevere nessuno. Mi hanno messo in pensione, e anch’io voglio fare il comodaccio mio; voglio ritornare come era mio padre che è morto beatamente mentre se ne stava a godersi un bel fuoco di ginepro, davanti al grande camino della nostra cucina.


Sarebbe stato facile adattare un caminetto posticcio; ma il professore, giacché ci si era messo, voleva un camino autentico, scavato nella parete, da metterci dentro comodamente i piedi: la faccenda però presentava alcune difficoltà, e

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