co del cancello chiuso: un filo di fumo saliva dal comignolo, su fino al cielo lattiginoso di febbraio, e bastava quel segno di vita per rallegrare il luogo melanconico. Ma il cuore del vecchio non si rallegrava. Ogni tanto gli sembrava di sentire la tromba dell’automobile del suo giovine ultimo signore, e provava un senso, se non di spavento, di panico, simile a quello dei volatili acquatici che popolavano lo stagno e si alzano pesanti a volo cercando di salvarsi; poichè anche lui dal tempo dei tempi, e adesso più che mai, forse per un istinto ancora più naturale di mescolanza, quasi di parentela con la selvaggina da lui coltivata e custodita, sentiva un oscuro pericolo al contatto dei padroni, signorotti che a loro volta conservavano tutto il loro carattere di dominio primordiale, e, quando poi erano a loro volta dominati dal freddo furore della caccia, partecipavano al selvaggio carattere degli animali da preda. C’era stato un periodo, dopo la morte dell’ultimo signore, in cui il vecchio aveva creduto, non senza però un certo rimpianto e la nostalgia delle ère chiuse per sempre, che la sua vita oramai poteva considerarsi come quella di un servo pensionato. La tenuta era sempre sotto la sua tutela, ma affidata a miti cacciatori di città, che non gli prodigavano rimbrotti e insulti: finchè un giorno, con uno di questi, bonaccione e buontempone, era venuto, così per svago e curiosità, l’ultimo erede, esile e biondiccio, che reggeva il fucile da caccia con lo spavaldo e innocuo divertimento dei ragazzi che maneggiano quello portato dalla Befana.