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mavano in rosee collane di salsicce. I loro festoni venivano appesi alle travi di quercia della cucina, e per farle essiccare presto si accendeva il focolare centrale, con legno fresco di ginepro. Il fumo ne scaturiva denso, ma non acre, anzi con un odore d’incenso. E tutta la cucina, col suo grezzo soffitto, la mensola coi candelieri di ottone, il luccicare dei rami, prendeva un aspetto festivo, un colore di tempio dell’abbondanza, di quell’abbondanza che nelle previdenti massaie sarde giustamente desta un senso di orgoglio. Alla sera, quando il fumo era fuggito nella fredda notte stellata, e nella cornice di pietra del focolare rimaneva solo il mucchio odoroso delle brage, qualcuna delle signorine non sdegnava sedervisi accanto, sotto la lampada di ottone ad olio, riprendendo la lettura di un romanzo proibito.

E non facevano più le smorfiose, le signorine al completo, quando la domenica seguente, ritornando affamate dalla messa elegante del mezzogiorno, vedevano sulla tavola da pranzo il grande vassoio di stagno, forse un giorno dimenticato da Ulisse nel suo breve sbarco nell’Isola: poichè sul vassoio stava un bel cuscino caldo e dorato di polenta, e sul cuscino posava, tra foglie di alloro, come un diadema di gloria, un doppio cerchio di salsicce arrostite allo spiedo. Gloria e premio per l’opera coraggiosa delle brave ragazze.

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