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padroni; e, andati via loro, alla sera, il profumo del sanguinaccio cotto sembrava quello di un dolce da sposalizio. Ma la mattina dopo le signorine dovevano, con ancora in mente il fumo dorato dei romanzi letti di nascosto la sera prima, indossare i grembiali dei giorni di fatica grossa e schierarsi intorno all’esecrato tavolo di cucina. Era un’opera da carnefice: bisognava insanguinarsi le dita e le vesti, e fare smorfie di ripugnanza al contatto della carne cruda. I grandi coltelli affilati, le mezzelune, e, se occorreva, persino le scuri simili a mannaie, funzionavano nelle piccole mani bianche, con la forza crudele della rivolta che sobillava dentro le fanciulle: e gli occhi di queste avevano lo stesso lampeggiare dei feroci strumenti.
E taglia e taglia, e spacca e pesta, solo quando il rosso e bianco monticello della carne e del grasso triturati sorgeva sul margine della tavola, gli occhi ritornavano miti, il riso, lo scherzo, le beffe, fiorivano di nuovo in bocca alle ragazze: anzi, scaldate dalla fatica esse raddoppiavano lo sforzo per finire presto e bene l’opera.
E la servetta, che nel grande mortaio di marmo pestava il sale grezzo venuto dalle spiagge di Baronia, il sale per coprire il lardo, roteava i neri occhi d’antilope, dichiarando che se un uomo l’avesse a tradire, ella gli avrebbe pestato le ossa nello stesso modo.
Poi le ragazze aiutavano a colare lo strutto nelle vesciche che venivano appese in alto come lampade di alabastro: e ad insaccare la carne salata e pepata nelle lunghe budella che anch’esse, da viscide spoglie di biscia, si trasfor-
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